Docu-Yara: 12 motivi per cui non mi ha convinta
Ho visto il documentario del momento, ho riletto le sentenze e mi sono convinta di un'unica cosa: Massimo Bossetti ha ucciso Yara. Nonostante si spacci per vittima del sistema.
Chi ha scritto, pensato e realizzato il documentario “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio”, ovvero Gianluca Neri, è un mio amico. E anche tra i consulenti dello stesso documentario ci sono persone che stimo.
Dunque, ho aspettato qualche settimana prima di dire la mia perché volevo lasciar sedimentare un po’ le sensazioni e, soprattutto, trovare una risposta decente all’intima, scomoda domanda: che si fa quando un amico esce con un prodotto che non solo non ti convince, ma segue la scia di una tendenza ambigua, talvolta pericolosa, e cioè quella di costruire tesi alternative a verità processuali senza nuove prove e senza nulla che possa smontare il castello accusatorio?
Ecco. Ne ho parlato brevemente con Gianluca, ho espresso alcune delle mie perplessità direttamente a lui, “sentiti libera di scrivere quello che vuoi”, mi ha detto.
Fine della premessa.
Vado dritta al punto: io detesto le operazioni che seguono uno schema consueto, e cioè: 1) prendi un caso di cronaca famoso 2) con l’ausilio degli avvocati semina dubbi 3) inizia un pressing mediatico tramite qualche programma di crime o un documentario 4) aspetta che i social si infiammino 5) in alcuni casi intervista l’assassino in esclusiva 6) trova una pista alternativa.
Così il caso Erba, Mario Biondo, David Rossi e qualche altro. Tutti casi che non si sono mai spostati di un centimetro dalla verità processuale, nonostante il frenetico annaspare di chi ha provato a farli riaprire.
Detesto queste operazioni perché sono troppo facili: le carte processuali sono faldoni da migliaia di pagine, un telespettatore non avrà mai gli strumenti per valutare la correttezza di una informazione. Se decidi di costruire un servizio o un documentario mettendo in luce solo i passaggi che ti sembrano ambigui di un processo e tralasciando prove schiaccianti, chi guarda verrà dalla tua parte. Elementare. E ora veniamo al documentario.
Le cose che non mi hanno convinta:
Manca l’accusa. Intanto è sbilanciato. Ci sono Bossetti, la moglie, i legali di Bossetti, il Telese innocentista, perfino i personaggi neutri come il comandante dei carabinieri Roberto Tortorella che sembra a casa di Gianluca Vacchi, ma manca l’altra campana. E se c’è, non riesce certo a bilanciare la palese narrazione innocentista. Non parlano la pm Letizia Ruggeri, gli avvocati della famiglia Gambirasio, i genitori di Yara e molti altri. Così si finisce per raccontare una storia in maniera parziale e, soprattutto, suggestiva.
La pm Ruggeri nel ruolo della “cattiva”. C’erano due modi per raccontare la pm Ruggeri, ovvero quello di chi crede alla verità processuale e quello di chi crede ai difensori di Bossetti: o la pm è l’instancabile ricercatrice della verità che mette in piedi un’indagine imponente e geniale per arrivare a rintracciare l’assassino di Yara. E ce la fa. Oppure un pitbull che si è accanito su un uomo qualunque. Ovviamente il documentario ha scelto la seconda via. La pm Ruggeri è raccontata, perfino nelle immagini selezionate, come un personaggio ambiguo e antipatico, quasi ossessionato dal trovare il colpevole. Come se l’eventuale ossessione, ai tempi, fosse stata bizzarra, dal momento che c’era un predatore sessuale di ragazzine in circolazione. La teoria suggerita dal documentario secondo la quale, poi, avrebbe forzato la mano per trovare il colpevole perchè subiva un pressing mediatico e politico, fa acqua da tutte le parti. Ricordo sommessamente che ha impiegato 4 anni per trovare il colpevole. Dire che aveva urgenza di consegnare un nome qualunque, perciò, mi sembra un po’ impreciso.
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