La mia intervista mai uscita a Nicolò Govoni
Nel 2020 Govoni accettò di parlarmi, e rispose ad alcune domande sulla sua reale esperienza sul campo, sulle sue feroci critiche alle ONG, su formazione dipendenti e Nobel. Fu abbastanza imbarazzante.
Nicolò Govoni è una sorta di fenomeno nel mondo del terzo settore. Con la sua organizzazione umanitaria, Still I Rise, raccoglie milioni di euro in donazioni e apre scuole in alcuni paesi del terzo mondo. La sua comunicazione e il suo operato suscitano però alcune perplessità. Nel 2020 gli feci una prima intervista, in cui sollevavo dei dubbi su alcuni aspetti della sua attività e della sua narrazione. L’intervista non uscì perchè, in quei giorni, scoppiò la pandemia di Covid-19. Successivamente tentai di intervistarlo di nuovo per aggiornarla e per fargli nuove domande sulle attività più recenti, ma non è stato possibile.
Partiamo dall’inizio. A 20 anni sei partito per una missione umanitaria in India?
Per un progetto in India. Parlerei di progetto perchè una cosa che faccio spesso è differenziare volontalento e volonturismo, ovvero quei pacchetti per giovani in cui paghi una cifra alta per sopperire alla tua mancanza di abilità o formazione e che ti permette di fare nel terzo mondo cose che in Italia non saresti abilitato a fare.
E tu che facevi?
Io ho fatto per tre mesi esperienza di volontariato che doveva essere “salvare il mondo” e poi di fatto era volonturismo.
Quanto hai pagato per l’India?
Circa 1000 euro.
Che organizzazione era?
Meglio non dirla.
Sei stato in un orfanotrofio, il Dayavu Boy’s home, giusto?
Sì, avevano fatto questa partnership per sei mesi in cui questa struttura internazionale inglese mandava volontari non formati che si facevano un mese lì e poi levavano le tende. In pratica avveravano il desiderio di noi occidentali giovani di realizzarci in questo modo, ma quando hai 18/20 anni non hai le capacità per fare un lavoro etico e che aiuti davvero. Con mille euro hai il privilegio di credere di fare del bene, ma è solo auto-gratificazione. E’ un business.
Poi che succede?
Torno a casa, avevo capito che questo non era il modo di fare volontariato. Mi ero legato molto ai bambini dell’orfanotrofio ma non sapevo niente di psicologia infantile, trauma, di gestione dell’affettività. Per cui i rapporti erano stretti e belli ma dovevo partire e questi bambini hanno vissuto un altro trauma, il distacco. Il direttore dell’orfanotrofio era dispiaciuto, anche perché non aveva bisogno di volontari di questo tipo.
Dove era l’orfanotrofio?
Nel sud, uno stato che si chiama Tamil Nadu e l’orfanotrofio è in una zona rurale a 8 ore da Chennay, Dindigul.
Poi tu torni in India per studiare?
Sono tornato per fare volontariato indipendente e ho trovato una università in India che mi permettesse di studiare e di stare lì. La Symbiosis a Pune, per tre anni. Ho studiato giornalismo.
Bella scuola?
Beh… È un delle università migliori del paese. L’India è un paese in via di sviluppo con una matrice forte coloniale e dico sempre che questa università mi ha formato ma era anche una accademia militare, avevo pure il dress code. Gli insegnanti erano preparati ma ne facevano di ogni.
Cioè?
Il direttore dell’università è finito nel metoo perchè si usavano modi tipo bodyshaming e parole forti. Però mi ha fatto uscire dal mio bozzolo.
Un’università costosa che pagavano i tuoi genitori suppongo. Nel frattempo facevi volontariato nello stesso orfanotrofio in cui eri stato?
Sì.
Scusa, l’università era vicino Mumbai, l’orfanotrofio nel sud dell’India…Non era lontano? (sono 1200 km)
Prendevo l’aereo.
Quindi non ci andavi tutti i giorni.
No, magari andavo una volta al mese e poi alla fine del semestre magari mi facevo un mese giù.
Che lavoro fanno i tuoi genitori?
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