La morte di Davide Garufi non è colpa "dei bulli online"
Il giovane TikToker creava contenuti furbi e polarizzanti per creare engagement, ma era anche una persona depressa, che aveva bisogno di aiuto. E ora che è morto, c'è pure chi pubblica i suoi audio
Non si è mai parlato tanto, troppo e male di “suicidio” come in quest’ultimo anno. C’è chi ha usato questa parola per colpire il nemico, chi per suscitare pietà, chi per fare hype e chi- come i giornali- per fare click col minor sforzo possibile.
L’idea che la parola “suicidio” vada pronunciata avendo cura delle parole (esisterebbe perfino un codice deontologico per i giornalisti) e attenzione per tutto ciò che può nascondersi dietro a un gesto definitivo, non è mai balenata a nessuno. Giornalisti e commentatori da bar si lanciano in analisi frettolose sul caso del momento sfornando nel minor tempo possibile la soluzione alla grande domanda "perché?". E la soluzione è sempre: perché Tizio o Caio l’ha fatto suicidare. Fine, archiviato il caso.
Ed è così che il triste caso del suicidio del TikToker Davide Garufi, 21 anni, è da ieri già sulle prime pagine di tutte le testate nazionali descritto come conseguenza del cyberbullismo. “Tiktoker di 21 anni si toglie la vita. Gli insulti online dopo la transizione di genere: inchiesta per istigazione al suicidio”, “Suicida tiktoker 21enne, riceveva insulti per la sua transizione di genere” e così via. L’immancabile Cathy La Torre partorisce il pensierino del giorno affermando “Ciao Alexandra, che la terra ti sia lieve, chi ti insultava ti ha tolto la vita”, senza sapere neppure che quello della trasformazione da Davide in “Alexandra” era stato solo uno dei tanti passaggi nel confuso storyrtelling del tiktoker (che per giunta non voleva più il soprannome “Alexandra”).
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