Un bagno rosa
Appena atterrata in India sono stata colta da un terribile problema intestinale. Che si è trasformato in una imprevedibile lezione di vita e femminismo.
In India sono riuscita nel raro intento NON di prendermi un virus intestinale sul posto, ma di portarmelo il giorno dell’arrivo a Delhi direttamente dall’Italia, il che ha dato esiti vicini a una specie di nuovo, apocalittico spillover: cagozzo italiano + cagozzo indiano. Ma non voglio spoilerarvi troppo questa avvincente versione plus del mio consueto drama e vado a raccontarvi i particolari non sempre edificanti (perdonatemi) del mio sbarco in India che ribattezzerò “I-drama plus” con risvolto sociale. Perché- incredibile a dirsi- da semplice disavventura si è trasformato in una magistrale lezione di vita e femminismo.
Il diretto Milano Malpensa-New Delhi inizia così così. Nel senso che Lorenzo, poco dopo la partenza, mi confessa di aver dimenticato un power bank nel bagaglio in stiva. Se ne è accorto quando siamo ormai in volo. Non sappiamo se sia stato trovato e sequestrato, fatto sta che io la prendo con allegria fatalista: “Pensa se prende fuoco mentre atterriamo su Delhi e l’aereo cade su un quartiere con un milione di abitanti e saremo ricordati come responsabili del peggior incidente della storia dell’aviazione mondiale”.
Comunque, sembra andare tutto bene quando più o meno all’altezza della Turchia c’è una non trascurabile turbolenza che fa esondare l’acqua dai bicchieri e mi fa sentire subito la protagonista del prossimo episodio di “Indagini ad alta quota”.
Ovviamente ai primi smottamenti dell’aereo do subito la colpa al power bank di Lorenzo. “Non mi risulta che i caricatori portatili provochino vento in alta quota”, dice lui per mettere le mani avanti. “Che ne sai? Non è che quelli caduti da un aereo per colpa di un power bank siano venuti a raccontarci se prima dello schianto ci sia stata pure qualche raffica di vento”. “Ce lo racconta la fisica”. “Ah, ora tu hai studiato il volume ‘Batterie agli ioni di litio e possibili effetti sulle masse d’aria atmosferiche’?”. Fatto sta che dopo pochi minuti la turbolenza finisce e capisco che probabilmente quello di Tenerife nel 1997 manterrà il primato di peggior incidente dell’aviazione nella storia.
L’atterraggio è puntuale e la macchina che deve portarci ad Agra per vedere il Taj Mahal (3 ore e mezzo circa di auto) è già lì che ci aspetta. C’è solo un particolare abbastanza inconsueto in India: l’autista non parla inglese. Lorenzo non è dunque convinto che sappia dove deve portarci benché “Agra, Taj Mahal” sia una località piuttosto nota da quelle parti. Siccome la scheda telefonica indiana comprata in aeroporto pare morta, non può seguire il percorso dell’autista via navigatore.
Ora, voi dovete sapere una cosa di Lorenzo: lui non tollera di essere trasportato da qualcuno in qualsiasi località se non verifica dove siamo localizzati ogni due secondi su google maps. Immaginatelo in India, col dubbio che l’autista ci stai portando da un rivenditore di organi a Mumbai. Dunque, mentre accende e spegne il telefono nel tragitto con un livello di isteria paragonabile a quello di Calenda quando Travaglio gli ride in faccia, io inizio a sentire dei lievi smottamenti intestinali. Siamo ancora a Delhi, immersi in un traffico apocalittico, e non dico niente. “Suggestione tipicamente indiana”, penso tra me e me.
Finalmente la scheda telefonica aggancia il segnale e Lorenzo realizza che l’autista non ha venduto il nostro fegato per 100 000 rupie. Mentre lui sospira di sollievo, io inspiro e basta, perché sento dolore anche solo nel respirare. Ho dei crampi per cui mi sembra che le mie budella si stiano attorcigliando tipo le sagne ‘ncannulat salentine. Eppure non ho ancora mangiato NIENTE in India, possibile che un virus aerobico fulminante nascosto nell’aeratore dell’automobile mi stia già uccidendo? E che spillover sarebbe, topo/radiatore? Batteria/blatta? Le batterie tramano contro di me dall’inizio di questo viaggio, lo sento.
Non dico ancora niente per non agitare Lorenzo che comunque ha ancora il dubbio che l’autista voglia scambiarci con alcuni ostaggi pakistani trattenuti in Kashmir. Usciti dall’infernale traffico di Delhi siamo decisamente sollevati: inizia l’infernale traffico di Noida. E ora direte: che cazzo è Noida? Ecco, infatti io non avevo idea di cosa fosse Noida, ma scopro che finita Delhi inizia una città di nome Noida, senza che ci sia un reale spazio neutro tra le due. So che è Noida perchè a un certo punto c’è un cartello con scritto “Welcome to Noida”. Me lo ricordo perchè nel leggere quella scritta mi viene un crampo per cui penso che Noida sia un nome indiano per definire l’aldilà, è evidente che io stia passando a miglior vita e dico “miglior” perchè non esiste una vita peggiore di quella nel traffico indiano, è una questione empirica.
Lorenzo mi vede rantolare e quindi gli spiego educatamente, con pacatezza, che non mi sento bene: “Fermiamoci da qualche cazzo di parte subito”. “Cos’hai?”. “Trovatemi un cazzo di cesso”. Lorenzo capisce che non è il momento degli approfondimenti clinici e si rivolge all’autista il quale non parla inglese ma capisce la lingua universale che nel caso di “cagotto”, in India, è ancora più universale. Basta indicare la pancia e l’indiano capisce subito che se non accosta entro dieci secondi dovrà far sparire l’auto nel Gange. Il problema però è che siamo su una specie di statale/autostrada/boh (tanto in India in ogni rettilineo ci sono sempre mucche, trattori, bici, case libri auto fogli di giornale anche contromano), il traffico è intenso e non c’è modo di raggiungere presto un’area di servizio.
Sono disperata. La disperazione è tale che mi accontento di un qualunque spartitraffico, e immaginate il livello di disperazione a cui sono arrivata per partorire un pensiero del genere. Vabbè, la faccio breve perchè mi rendo conto che “Cronache di una dissenteria” non sarà il prossimo Pulitzer, fatto sta che dopo una specie di viadotto (sempre a Noida) l’autista accosta al lato della carreggiata e indica una casetta rosa all’esterno della quale ci sono due poliziotti. Scendo con la forza della disperazione e capisco che quello è un bagno della polizia. Non capisco perché mi facciano entrare senza domande, ma non è appunto tempo di domande bensì solo di risposte perentorie alla mia sofferenza, e cioè di Imodium e wc.
Mi chiudo in bagno e spero che mi passi. Il bagno indiano pare un chiaro segnale della mia già avvenuta dipartita. Non è possibile. UN BAGNO INDIANO SU UNA STATALE TUTTO ROSA E INTONSO, PULITISSIMO. SONO MORTA. No, non sono morta, ma qui inizia lo strazio perchè io sto male, malissimo, solo che in auto ho preso un Imodium e ho un blocco.
Vorrei fornirvi ulteriori dettagli ma credo che ne vada della mia dignità, per cui taglio tutto il calvario vissuto e vi dico solo che mi sono data tempo UN’ORA per “liberarmi” e poi per me Miss India finiva lì. Nel senso che ho detto a Lorenzo “Inizia a chiedere dove sia l’ospedale più vicino”.
Mentre (sempre chiusa nel cesso) apprendevo che c’era un ospedale a dieci minuti di distanza, la polizia minacciava l’autista di multarlo se non si fosse tolto dalla strada. Il tutto accadeva con 40 gradi reali e percepiti, Noida, i clacson, la polizia che piantonava il cesso, Lorenzo che fumava come se stesse perdendo sua moglie e il figlio in grembo durante il parto, io che pensavo “ho sempre detto che mi sarebbe piaciuto essere seppellita in India, ma non morire in un cesso a Noida”. Dopo 50 minuti di strazio e allucinazioni, allo scadere del tempo, “la situazione si risolve”. E non mi viene in mente frase più asciutta, sebbene di asciutto - nella risoluzione del caso- non ci sia stato nulla.
Esco dal bagno con la faccia di chi ha vinto Wimbledon. L’autista chiede se va tutto bene ma è indiano, sa che se in India esci vivo da un cesso, in uno stato solido e non liquido, vuol dire che da quel momento potrai sopravvivere anche a una pioggia radioattiva.
Intanto, sollevata, mi vanto di aver trovato la soluzione ai miei problemi “in un bagno rosa della polizia indiana”. E qui viene la parte interessante della storia. Quello non era un bagno rosa della polizia indiana. Apprendo che la polizia è lì perché quello è un bagno femminile e i bagni femminili, se possibile, in India vengono presidiati per ragioni di sicurezza. Quindi, quella che sembrava una storia senza spunti di interesse che non fossero la disavventura di una turista lì lì per finire la sua vacanza indiana in un ospedale a Noida e altre amenità, diventa invece una faccenda interessante. Che scoprirò dopo, ovviamente, documentandomi.
Fino a pochi anni fa in India (un miliardo e mezzo di abitanti e città popolate anche da 20 milioni di persone) non esistevano bagni pubblici per le donne. E la maggioranza delle persone non aveva neppure un bagno in casa. Nel 2011 solo il 32,7% delle famiglie indiane aveva accesso a servizi igienici. Questo costringeva le donne ad appartarsi in luoghi isolati, addirittura campi e boschi, per espletare le loro funzioni. Nel 2014 divenne tristemente famoso il caso di due ragazzine stuprate mentre andavano a fare i bisogni nella boscaglia vicino al villaggio. Molte donne, in India, lavorando fuori casa e in città enormi avevano imparato a trattenere la pipì (e non solo) per otto/dieci ore al giorno con tutte le conseguenze di salute del caso. Nel 2013, l’organizzazione non governativa Coro aveva promosso la campagna “Right to pee“ ( 'Diritto di fare pipì'), per spingere il governo indiano a fornire bagni pubblici per le donne.
Sembra incredibile, ma la resistenza di molti indiani a costruire bagni in casa era (e ancora in parte è) anche di carattere religioso: per gli indù defecare in casa porta impurità e quindi è preferibile farlo nei campi. Una donna indiana, nel 2016, ha ottenuto il divorzio per giusta causa e la giusta causa è stata che il marito si era rifiutato per ben sei anni di costruire un bagno in casa (il giudice le ha dato ragione, spiegando che «la mancanza di toilette è una crudeltà e un oltraggio alla dignità”). Nel 2017 in India è addirittura uscito un film con una star indiana, “Toilet: a love story”, di un notevole importanza sociale per le donne e il problema della mancanza di servizi igienici. Sembra una semplice storiella d’amore, ma no, non è solo la Bollywood dei balletti e delle trame roboanti tra passioni e vendette. È la storia di un uomo che sposa una donna per amore e rischia di perderla perché lei non accetta di non avere il diritto di possedere un bagno in casa. È costretta, come tutte le donne del villaggio, ad avventurarsi in un campo, di notte o all’alba, correndo il rischio di essere violentata. Dovendo trattenere i bisogni per ore, quando c’è ancora la luce del giorno. Non sapendo come gestire le mestruazioni.
"Siamo stati in grado di lanciare razzi su Marte e sulla luna, ma non siamo ancora riusciti a costruire servizi igienici per porre fine alla defecazione aperta in tutto il Paese", ha dichiarato il famoso attore protagonista Akshay Kumar al “Times of India”. Fatto sta che alla fine la star di Bollywood è diventata il testimonial del disinfettante per wc più famoso d’India. (Reckitt Benckiser) E che in quell’anno il film è stato il secondo più visto di tutta la stagione indiana.
Come avrete capito dalla mia avventura all’arrivo in India, negli ultimi anni la situazione è migliorata: Narendra Modi ha lanciato il programma Swachh Bharat (“la missione di pulire l’India”), molti bagni pubblici e privati sono stati costruiti (con tanto di sussidi per chi costruisce il bagno in casa) e ci sono perfino autobus convertiti in bagni femminili.
Insomma, l’emancipazione femminile, in India, passa anche attraverso la possibilità per le donne di andare in bagno e di poterlo fare in sicurezza.
A me, sciocca turista, quel cesso è parso una semplice botta di culo. E invece era il risultato di una battaglia che tante donne indiane hanno combattuto per noi tutte.
Il giorno dopo ho visto per la prima volta il Taj Mahal, ma per me la settima meraviglia del mondo sarà sempre quel bagno rosa apparso per miracolo lungo una statale a Noida.
Grazie sorelle indiane.
Namastè!
Comunque quello in foto è DAVVERO il bagno in cui sono finita. Non lo avevamo ovviamente fotografato ma Lorenzo ha trovato un'immagine di QUEL cesso sul web!
Sai che questa storia mi ha commossa? L’emancipazione femminile che in India passa per il diritto di avere un bagno è qualcosa di forte e commovente insieme.
La tua scrittura potente, divertente, coinvolgente, come sempre.
Namastè.